mercoledì 5 ottobre 2011
Ho pensato ad Amanda Knox. Non ho seguito il caso passo per passo. So solo che a grandi linee un gruppo di ragazzi si è drogato, ha bevuto, ha fatto sesso, poi violentato e brutalmente ucciso una giovane ragazza di pochi anni, che meritava di esistere ancora, a quest'ora del mondo. So anche che una persona africana è stata condannata perchè ha scelto il rito abbreviato, che suona come un campanello di certa colpevolezza. Probabilmente ha confessato. Chiaramente il quadro fa pensare: un ragazzo nero viene accusato, i due bianchi scagionati. Il processo mediatico fa apparire Amanda come gli italiani relegati nelle prigioni quando si sballano nei posti sbagliati. Ho pensato a lei, ieri mattina, dopo l'assoluzione e la scarcerazione immediata. Non so se è stata lei, e credo che sia importante per un sistema di giustizia, non condannare a grandi linee solo per avere la certezza di un colpevole. Se le prove erano insufficenti, non c'è molto da discutere. Ho pensato ad Amanda che si sveglia fuori dal carcere, sempre che sia riuscita a dormire. Il pensiero di Meredith è già là, ad attenderla a Seattle, si presenterà
col giornale del mattino, qualunque sia il suo grado di colpevolezza. Ho pensato a lei che viene accompagnata in aeroporto. All'aria blu che ha l'esterno, quanto stai tanto tempo in casa, perchè hai la febbre, o quando sei stata in ospedale per un malanno. A come il mondo sia improvvisamente un quadro allegro e anche le cose che prima lo facevano orribile diventino un gioco di burattini. Ho pensato alla sua faccia durante il decollo che la riporta in America, a casa sua. Al suo pensiero, ai suoi quattro anni di carcere. All'aereo che rolla sulla pista, il rumore, a tutti i rumori che avrà ricondotto alla porta del carcere che si apre per andare a lavorare in lavanderia. Alle ruote che staccano sulla pista, al suo camminare in quel luogo per quattro anni consecutivi aspettando che si decidesse quanti anni ci avrebbe dovuto camminare ancora. Al vuoto d'aria durante il decollo, alle parole scambiate con le compagne di cella, quattro anni di parole, di pensieri, di dubbi, sugli altri, su se stessa. Quattro anni di coscienza che ti parla, anche se non sei stata tu, di coscienza che non tace mai, che ti dice potevi stare a casa, dovevi fare due passi, avresti dovuto pensare a studiare, non far stare in pensiero tua madre che lo sai che ti vuole bene, tuo padre che lo sai i sacrifici che ha fatto per farti studiare, che tanto anche in America parlano così, i padri e le madri parlano lo stesso amore in tutto il mondo. Non ho potuto non pensarla, alle sue narici che respirano fuori, che anche se crollasse tutto, l'aereo, il cielo, le nuvole si disfacessero, il mondo continuasse a puntarle il dito, sarebbe comunque fuori, niente più orari, niente più visite, niente buona condotta. A Seattle i familiari, i debiti, i giornalisti. Non ho potuto non pensare all'ultima esecuzione di condanna a morte negli Stati Uniti. Anche lì, c'erano dubbi sulla colpevolezza. Niente aria blu, niente fuori. Le ultime parole assomigliavano ad altre lasciate da un condannato a morte in Texas. "Sono innocente, ma sono nero".
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